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Apologia di un baro

Apologia di un baro

“Il poker dovrebbe essere insegnato a scuola. Infatti offre, in sintesi, la rappresentazione di tutti i rapporti umani che i bambini ritroveranno più tardi, nella vita”. Così assicura l’attore Yves Montand.

La riflessione d’apertura suggerisce alcune considerazioni conseguenti al parallelismo tra la vita ed il gioco e, soprattutto, al fatto che normalmente si giochi per vincere, con buona pace di Pierre de Coubertin. Altro elemento comune, tra vita e gioco, è che ci si accosta ad entrambi quando le regole sono già state determinate, insomma, ogni cosa ci è già data all’interno di una catena di rimandi d’uso al solo scopo di consentire al gioco di funzionare. Sarebbe interessante sviluppare anche la considerazione che, in quest’ottica, ciò che importa è il gioco e non il giocatore e, aspetto altrettanto rilevante, che il verbo funzionare prevede un progetto, un fine e, inevitabilmente, un progettista, ma rimando tali pensieri ad un approfondimento in altra sede.

L’aspetto che sottolineo ora è che non bisogna assolutamente domandarsi se ogni cosa è davvero in funzione a come la uso nè per quale ragione lo faccio: per vincere al gioco non devi farti domande, devi semplicemente essere il più bravo nel gioco stesso. Poichè tutti sono impegnati nella competizione il fine del gioco diviene vincere, e così che il fatto che ci sia o meno una ragione nel gioco stesso passa in secondo piano: una volta entrati puoi solo vincere o perdere e, poiché a nessuno piace perdere, ecco che il senso del tutto è la logica conseguenza dell’assenza della domanda sul senso stesso. Paradossalmente il gioco acquista senso solo se acconsenti a non pretendere che lo abbia.

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