Negli ultimi anni i media hanno avviato una vera e propria campagna di allerta riguardo il fenomeno del femminicidio, con tanto di trasmissioni correlate per raccontarne le storie (ad esempio Amore Criminale o il Terzo Indizio). Ancora oggi, al telegiornale, non vi è praticamente una giornata in cui non venga data una notizia riguardante una moglie uccisa dal marito, una donna perseguitata e poi uccisa dall’ex compagno non rassegnato alla fine della loro relazione, e così via. Con l’invito caloroso alle donne maltrattate a denunciare quando si accorgono che qualcosa non va.
Sono dati sicuramente allarmanti, da non sottovalutare. Ma esiste un’altra faccia della medaglia di cui si parla veramente poco: la donna che perseguita, la donna che molesta, la donna che uccide l’uomo. E anche i casi di questo tipo non sono pochi. Anzi. Basta digitare su google: “moglie uccide marito” per rendersi conto di una minima parte di questi.
Indubbiamente la donna, dal medioevo fin verso la metà dell’ottocento, in moltissimi casi si è trovata costretta a subire le angherie del marito a causa del modello di famiglia patriarcale, dell’opinione diffusa che l’uomo fosse a lei superiore e quindi giustificato a punirla e percuoterla, e così via. La donna apparteneva all’uomo e lui poteva fare di lei ciò che voleva. Questa visione della donna andò pian piano a sgretolarsi, con epilogo nel 1981, quando avvenne l’abrogazione formale del delitto d’onore con la legge 442.
Già in quel periodo i risultati dello studio condotto dal Laboratorio di Ricerca sulla Famiglia dell’Università del New Hamphshire fecero emergere una percentuale minore di casi di gravi aggressioni da parte dei mariti alle mogli (2,0%) rispetto alle aggressioni da parte delle mogli ai mariti (4,6%)