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Ma perché dare al sole…

Ma perché dare al sole…

“Ma perché dare al sole,/ perché reggere in vita/ chi poi di quella/ consolar convenga?” Chi non ha memoria scolastica dei versi leopardiani contenuti nel grande idillio “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia? Sono versi meravigliosi e terribili, che esprimono le domande primordiali, quelle alla radice della ricerca di ogni senso all’esistere ed ancor più inquietanti poiché posti da un semplice pastore, non un sofisticato pensatore, ma un uomo semplice che ha bisogno di risposte chiare e che pone una questione alla quale millenni di pensiero hanno cercato diuturnamente di offrire possibili risposte. La medesima questione, anche se declinata in termini diversi e, per certi aspetti antitetici, è la chiave di volta della ricerca filosofica di Albert Camus che in tutto il suo pensiero ed in particolare ne “Il mito di Sisifo” afferma che: “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”. Un po’ come dire: che senso ha dare inizio alla vita e, di conseguenza, perché non porvi fine? Perché perseverare nel generarla e nel non optare per il suicidio? Mi sembra importante aggiungere un altro apparente campione del pessimismo e del nichilismo, il grande Federico Nietzsche. Cito da La nascita della tragedia: “L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno. Quando quello gli cadde infine nelle mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo… Il demone tace finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”».

Mi torna alla memoria una della caustiche e anomalmente ironiche affermazioni del mio caro amico Gershom: “Non c’è nulla che uccida più della vita, chissà poi perché è tanto amata”. È anche vero che, una volta esistenti, non c’è una forza che ci abiti maggiore dell’istinto di sopravvivenza. Forse è per questo che è impossibile spiegare perché si sia tanto attaccati alla vita: non è “spiegabile” in quanto “istintuale”, si tratta di un amore assoluto ed incondizionato, che nasce con la coscienza stessa di essere vivi e caratterizza ogni forma di vita, per dirla nell’ottica biologica di Dawkins e del suo “Il gene egoista”. Può essere utile tornare al pensiero di Heidegger quando afferma che ognuno è gettato nel mondo, che non può scegliere quando, dove, come, che deve inevitabilmente imparare ad usare un mondo che gli è dato, magari disprezzandolo, cercando di adattarlo a sé, ma sempre, inevitabilmente, adattandosi ad esso. Insomma, quali margini di scelta libera ci sono offerti? E se non ne abbiamo, come possiamo pensare di poter essere felici? E se non è possibile ambire alla felicità ecco che si ripropongono gli eterni quesiti che hanno aperto questo incontro. Potremmo risalire a Mimnermo, Teognide Eschilo e a tutto il pensiero tragico greco, o a pensatori a noi molto più prossimi nel tempo come Kierkegaard e Schopenhauer oltre ai grandi citati in apertura, sempre l’uomo si è chiesto il perché della vita soprattutto una volta compreso che questa non potrà che condurlo alla morte e che ogni giorno non può essere altro che un ulteriore passo verso l’inevitabile. Una delle risposte classiche è stata la creazione e/o la fede in una vita eterna aldilà di quella materiale, da qui innumerevoli religioni espressione dei più diversi contesti socio culturali che le hanno tenute a battesimo ma riconducibili al medesimo enigma esistenziale. Ma allora, perché interrogarsi su una questione che non può condurci ad una risposta certa se non nella disperazione o nella fede?

La comparsa dell’uomo alla vita è dai tempi più remoti narrata come l’atto creativo di una divinità, che sia la volontà di Zeus nell’impastare le ceneri dei Titani e di Dioniso, del dio degli Ebrei che crea dal fango e dal suo pneuma, che sia autofecondazione come nel mito indiano che afferma che “Prajapati si mise a pregare e a digiunare, poiché desiderava una discendenza, e fecondò se stesso (S’atapatha Brhmana) o masturbazione “Sono io che ho generato nel mio pugno, che ho fecondato nella mia mano” (Libro di Apopi) come nella religione dell’antico Egitto. Ma se tentiamo una risposta non rimandando all’atto di una volontà trascendentale possiamo ricordare che l’uomo nasce a se stesso nel momento in cui prende coscienza di sé come altro dal tutto indistinto, dal caos primordiale dove tutto era in potenza e nulla ancora in atto. Un simile percorso è riconoscibile, seguendo la prospettiva della riflessione junghiana, nello sviluppo della coscienza individuale che inevitabilmente porterà con sé tutti gli archetipi collettivi originari. Afferma Erich Neumann in Storia delle origini della coscienza che “Gli stadi mitologici dello sviluppo della coscienza cominciano con lo stadio in cui l’Io è contenuto nell’inconscio”, a questa fase seguono tappe costanti riconoscibili nella storia individuale e, inevitabilmente nella prospettiva junghiana, in quella collettiva. Si tratta di quelle lotte titaniche che l’Io deve combattere per strappare all’inconscio collettivo ciò che poi potrà riconoscere come autocoscienza della propria identità, queste arcaiche battaglie sono riconoscibili nella mitologia di tutti i popoli con dei distinguo contingenti e delle costanti rinviabili all’archè dell’essere uomo. Ma non voglio inoltrarmi in questo contesto lungo l’affascinante e illuminante percorso suggerito da quest’ottica, è utile, per ora, ritornare all’interrogativo del grande recanatese.

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