“È bene quando una persona contraddice le nostre aspettative, quando è diversa dall’immagine che ce ne siamo fatta. Appartenere a un tipo significa la fine dell’uomo, la sua condanna. Se non si sa, invece, come catalogarlo, se sfugge a una definizione, è già in gran parte un uomo vivo, libero da se stesso, con un granello in sé di assoluto”. L’affermazione di Boris Pasternak ci indica un percorso di per sè estremamente interessante: se sclerotizziamo un essere umano in un qualcosa di definito, prevedibile, coerentemente strutturato e questo non sa o non può o non vuole essere altro, ebbene, quell’essere umano ha rinunciato a se stesso e se stesso è il coraggio di lasciarsi sorprendere dalle proprie emozioni, lanciare il cuore oltre l’ostacolo e raggiungerlo, credere che il miracolo possa accadere nel prossimo istante.
Ma la saggezza, o meglio, quella che i nostri tempi spacciano per tale, suggerisce piuttosto l’omologazione che non il coraggio di credersi e divenire degni del proprio cielo. Vogliamo dare credito ai nostri carcerieri? Vogliamo rassegnarci ad essere prigionieri più o meno responsabili dei limiti reali o presunti della nostra possibilità di conoscere l’assoluto che è in noi? Vogliamo precluderci la possibilità di credere che esistano varchi alla recinzione soma-spirituale che ci nega ciò a cui siamo naturalmente predisposti?
La mia risposta è no, abbiamo, oltre che il diritto, anche la possibilità di accedere alla felicità, di superare l’orizzonte che corre alla stessa velocità del nostro incedere ma che non può competere con le possibilità ulteriori di cui disponiamo.