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Luce ed ombra

Luce ed ombra

“La luce giunge ad essi da un fuoco che arde alle loro spalle, alto e lontano; tra quel fuoco e i prigionieri corre una strada soprelevata lungo la quale si innalza un muricciuolo […] lungo questo muro si muovono uomini che portano ogni sorta di oggetti e figure umane e d’animali, di pietra, di legno o di altra materia”: così prosegue Platone nel presentare il suo famoso mito della caverna. L’immagine può sembrare un poco surreale ma, appena esplicitata nella parte successiva del suo ragionamento, ecco che il senso dell’allegoria diviene chiarissimo. Platone sta rappresentando quella che, a suo modo di vedere, è la condizione comune a tutti gli uomini, costretti da catene per la mente che li costringe a osservare i fenomeni da un solo vincolante punto prospettico. La domanda cruciale posta dal filosofo è: “[…] credi che essi vedano di se stessi e dei loro compagni qualcos’altro fuorché le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?”. È inevitabile per noi oggi come per Glaucone allora rispondere all’interrogativo che Platone fa porre da Socrate in maniera univoca: “Come potrebbe essere altrimenti se essi sono costretti a tenere la testa immobile per tutta la vita?”

Siamo ad un ulteriore snodo concettuale che richiede una riflessione che, seppur breve, visto il contesto, proverà ad essere un contributo per “un pensiero altro”. Il tema posto dal filosofo è alla base di qualsivoglia approccio alla gnoseologia. Per essere più chiaro: è la domanda intorno a cosa e come possiamo conoscere. In verità in tale interrogazione, specie nell’ottica socratico-platonica, è implicito anche un fondamentale “perché?”. Certo, la motivazione alla conoscenza è determinante e, credo inevitabilmente, condiziona ed è condizionata dal come e dal cosa. Facciamo un esempio: se Antonella incontra Filippo inevitabilmente intercorre tra i due una relazione gnoseologica, ora, non credete sia profondamente diverso l’approccio se i due sono singol o impegnati, se le età sono prossime o molto distanti, se l’estetica e la chimica si muovono in un senso o in quello opposto, se il rapporto è di natura personale o professionale, se l’uno o l’altra o entrambe vivono una condizione psicologica di disponibilità o di chiusura … le variabili che potrei elencare sono innumerevoli e qui mi fermo, credo che il senso del mio procedere sia esplicito. È evidente ad ognuno di noi che, al variare di uno o più elementi del contesto, la comunicazione gnoseologica tra le parti subisca un determinante condizionamento prospettico. Bene, quello che ci insegna il mito è che gran parte del contesto non è libero, non lo scegliamo, ne siamo parte; ecco che il dialogo fra i due risulta preventivamente intenzionato. Le prime parole che i due si scambiano, il sorriso o meno che li condivide, la postura dei corpi e tutta la semantica della relazione, ci fanno capire alla prima riflessione cosa intende genialmente Sini con la necessità di “superare la superstizione del significato”, cioè, ogni gesto ed ogni suono divengono altro all’interno della cassa psichica di risonanza della relazione a priori generata dal contesto: ma torniamo alla caverna.

L’altro elemento, chiarissimo nella simbologia platonica, è che noi osserviamo, nella condizione di schiavi, solamente delle ombre. Ombre che presuppongono una fonte luminosa ed un corpo che, frapponendosi tra noi e la stessa, determini sullo schermo le immagini. Ma se tutti noi possiamo osservare solo delle ombre, inevitabilmente ed omogeneamente, le riterremo essere la realtà. Ovvio che il ragionamento del filosofo sottintende, e comunica surrettiziamente, l’esistenza di una realtà vera rispetto a quella ingannevole che fruiamo come tale, concetto che “appare” estremamente fondato ma che proverò a commentare in una prospettiva diversa! Bene: procediamo per ordine. Cosa sarebbero le ombre fuor di metafora? Torniamo ad Antonella e Filippo: se Antonella è una direttrice di filiale e Filippo un debitore che deve implorare una dilazione perché la moglie è gravemente malata e lui ha perso il posto di lavoro, lo sfortunato questuante difficilmente noterà il taglio dei capelli e la fragranza del profumo della donna anche se preesistessero condizioni fisico chimiche per tale osservazione. Filippo vedrebbe “una professionista”, la “direttrice di filiale”, molto difficilmente “la donna”. La voce di Antonella diverrebbe spietata o dolce non in base alle sue dinamiche ormonali ma in conseguenza alla concessione o meno del prestito o della dilazione. Insomma, il più delle volte riusciamo a vedere la professione o il ruolo e non l’attore materiale che ne è solo l’interprete. Ma il messaggio platonico è ancor più profondo, nel bene o nel male è bello e buono che lo decida il lettore; infatti Platone sostiene che le ombre, il titolo ed il ruolo nella nostra allegoria, sono parvenze di “ogni sorta di oggetti e figure umane e d’animali” portate a spalla da esseri umani. Mi sembra palese il senso, noi ci relazioniamo efficacemente tra ombre, come è funzionale alla sopravvivenza del sistema sociale, ma dobbiamo sapere che la realtà fisica è altro, quindi non il ruolo ma il corpo della direttrice e la marca del suo profumo, senza dimenticare che tutto questo ha senso solo se comprendiamo che la vera realtà è l’essere umano che porta a passeggio un corpo che recita una parte. Nell’ottica platonica, quella oramai profondamente radicata in tutta la cultura occidentale e, forse, planetaria, la “realtà-vera” è lo spirito, l’anima, l’essenza, possiamo chiamarla in mille altri modi, che nel mito è rappresentata dai portatori di statue.

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