Il più nobile dei doveri

Il più nobile dei doveri

Alceo

È buio qui fuori, e fa freddo. Entra acqua da tutte le parti, i vestiti fradici addosso, la pelle raggrinzita. I pianti dei bambini, le grida di noi adulti.
Sto gridando anch’io e mi accorgo soltanto ora, con sgomento, che la voce che sentivo e che mi sembrava troppo vicina era la mia.
Siamo 180, forse di più, ci chiamano migranti, ma siamo semplicemente persone. Ci sono tanti bambini, li guardo con una tenerezza infinita, mi gonfia il cuore.
L’appuntamento per tutti noi era a Istanbul, alle 7 del mattino. È una città stupenda, pregna di storia, conosciuta in tutto il mondo. Il mio cuore era però troppo chiuso perché la bellezza, dagli occhi, arrivasse a sfiorarlo. Mi guardavo intorno ma non vedevo nulla se non gli occhi belli di mia madre al momento dei saluti. Occhi che mi porto addosso, come un tatuaggio.
A Istanbul siamo stati caricati su due camion come bestie, animali da stipare sui carri bestiame.
Solo alle 21, dopo tutte quelle ore seduti nel camion per terra, senza bere, né mangiare, arriviamo nella zona di Cesme.
Camminiamo, camminiamo a piedi in mezzo ai boschi. Dei bambini che sono con noi, tanti, almeno una trentina, ammiro la spensieratezza e la gioia di vivere quella che ai loro occhi è una bella avventura. Spero che tra qualche giorno la loro gioia possa essere anche la mia.
Scorgiamo finalmente la costa, e ad aspettarci sulla spiaggia c’è la nostra barca, quella che ci porterà in Italia, verso una vita certamente non facile ma senz’altro più sicura. Siamo tanti, troppi, e questa barca è così piccola che dopo tre ore di navigazione, il motore va in avaria. Aspettiamo, per fortuna il sole è alto e il tepore è piacevole. La sete però è terribile.
Avvistiamo il caicco su cui, con difficoltà, riusciamo a trasferirci tutti. Questa nuova imbarcazione è più grande, ma è di legno ed è ridotta male, è evidente anche ai miei occhi del tutto inesperti. Il nostro viaggio riprende. Sono stremato, lo siamo tutti dopo quasi cinque giorni di navigazione, sottocoperta, ammassati, con le urla che gli scafisti ci vomitano addosso appena qualcuno cerca di salire per una boccata d’aria fresca; qui sottocoperta l’aria è irrespirabile, un odore nauseabondo di carburante che si mischia a quello dei nostri corpi sudati, spaventati, sporchi.
Siamo fermi, ma non possiamo scendere adesso. Qui al largo stiamo aspettando che cali la notte per arrivare in spiaggia, in Italia.
Sta succedendo qualcosa, la barca ha virato bruscamente, ma si è scontrata contro il fondale basso, spaccandosi. Stiamo affondando.
Assurdamente mi tornano in mente i versi di un poeta greco che studiai all’università:
“Non decifro la tesa rissa dei venti.
Ecco, da destra un’onda s’inarca, precipita,
poi da sinistra. E noi nel mezzo, noi e scuro scafo ci avvitiamo
spezzati nella gigantesca furia dell’acqua”.
Il mio viaggio, lo sento, sta finendo qui. Dicono che la città che intravvedo, nemmeno troppo lontana, si chiama Cutro; Kyterion si chiamava una volta, al tempo in cui accogliere uno straniero era il più nobile, naturale, dei doveri.

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