Il cielo stellato sopra di me

Il cielo stellato sopra di me

Generico settembre 2024

“Due cose riempiono lo spirito d’ammirazione e d’una venerazione sempre nuova e crescente, quanto più vi si applichi la riflessione: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me“. Così recita l’epitaffio sulla tomba di Immanuel Kant presso la Cattedrale di Königsberg, sua città natale, l’attuale Kaliningrad oggi in Russia dopo che il 1° dicembre 1943, alla Conferenza di Teheran, Stalin l’aveva pretesa in quanto “porto che non geli d’inverno sul Mar Baltico” aggiungendo: “[…] è la nostra unica rivendicazione territoriale. In realtà le acque di Kaliningrad mi risulta continuino a gelare, ma non è questo che ora ci interessa e torniamo all’epitaffio. Le parole, volute a memoria perenne del proprio pensiero, ben sintetizzano l’idea del padre del Criticismo, la bellezza assoluta della natura all’esterno dell’uomo e la perfezione della legge morale in esso. Il viaggio del pensiero occidentale alla ricerca di una possibile definizione della bellezza inizia però da lontano, potremmo riconoscerlo già nel termine “kalokagathia” nel quale coincidono il bello e il buono, idea centrale nel pensiero greco arcaico. Già nel V secolo il pensiero sofista, in particolare con Gorgia, definiva bello ciò che sollecita l’aìsthesis e avvince chi lo percepisce, insomma, spostava l’idea di bellezza da una concezione ontologica a un più moderno soggettivismo ma, sempre nella grande stagione del V secolo diverrà dominante la prospettiva platonica che ripristina l’idea di un bello assoluto, in sé, riconoscibile per alcune sue fenomenizzazioni contingenti e particolari, ma permanente come idea eterna e immutabile nell’Iperuranio, accessibile solo all’anima e riconquistabile attraverso il lungo viaggio della reminiscenza. Sarà Agostino a fondare l’idea di bello all’interno della tradizione cristiana presentandolo come ordine contingente che implica l’ordine assoluto che è perfezione, il logos che si riconosce nella natura, insomma Dio come ragione del tutto e la ricerca dell’uomo tesa all’unione con esso.

Se la prospettiva razionalistica è riconoscibile in tutta l’estetica rinascimentale, è con Hume che torna a spostarsi nel soggetto il quale, però, può ambire alla ricerca di un “bello in sé” nel momento in cui il giudizio soggettivo si approssima all’unanimità. Riportare il bello al giudizio del soggetto è anticipare il pensiero dal quale siamo partiti, quello kantiano, che afferma la bellezza del cielo stellato ma al contempo la centralità del soggetto che, per mezzo della contemplazione e della comprensione di tale sublime spettacolo, gli regala-riconosce la bellezza. A margine di questo necessario seppur brevissimo excursus sarà bene annotare che non è più possibile applicare simili categorie formidabili ed efficaci fino a qualche decennio or sono poiché, grazie o per colpa delle innovazioni tecnologiche, la manipolazione etica ed estetica delle masse ha “falsificato”, per dirla con Popper, le prospettive delle “maggioranze come garanti”, senza dimenticare che, già prima, queste erano facili vittime della cultura istituzionale. Va anche sottolineata un gravida riflessione di Marcello Veneziani che denuncia, nel suo viaggio “nelle regioni della scontentezza”, quello che definisce il male dell’occidente attuale e che, ma si tratta di una personale prospettiva, riconoscerei nell’anticipazione nietzscheana del “risentimento”. Credo che tale condizione esistenziale nella quale “il mare oscuro del rancore si allarga” sia riconoscibile una attualissima patologia che potremmo definire anedonìa in quanto l’ossessiva ricerca del piacere ha sterilizzato le radici elementari dello stesso, ogni piacere è sempre inferiore alla possibilità di altro, l’insoddisfazione dilaga e l’individuo, sempre più solo e insoddisfatto di sé e del mondo, si lascia nullificare da qualche proiezione virtuale di sé più o meno consapevole.

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