“I bambini non hanno bisogno di programmi scolastici sempre più complessi, ma di avere ampio accesso al mondo reale. Hanno bisogno di tempo e spazio per riflettere sulle esperienze che vivono e di usare la fantasia e il gioco per trarne significati. Hanno bisogno di un consiglio, di mappe di viaggio, di guide che li aiutino nel cammino, nella ricerca del luogo dove desiderano andare, e non dove noi vorremmo condurli. Soprattutto, hanno bisogno di cercare ciò che essi vogliono e trovare da soli ciò che cercano” afferma il “pedagogista della descolarizzazione” John Holt. Senza entrare nello specifico che è ambito da specialisti, limitiamoci ad accogliere la notazione, in altra sede sviluppata dallo stesso Holt, che l’intima conoscenza di una lingua acquisita sperimentalmente da un bambino non è paragonabile a quella imparata attraverso le regole del metodo didattico tradizionale; allo stesso modo sarà profondamente libero e radicato l’apprendimento individuale attraverso l’esperienza, le inclinazioni e le passioni, rispetto a quello omologante e “ricattatorio” delle istituzioni. Ora, senza dimenticare tale assunto, possiamo anche affermare che i tempi e le finalità della scuola sono decisamente più funzionali a un sistema come l’attuale rispetto a quello ipotizzato da Holt, che questa considerazione evidenzi aspetti positivi o meno è tutto da analizzare. Illuminanti le parole di Jean Piaget: “L’obiettivo principale dell’educazione nelle scuole dovrebbe essere quello di creare uomini e donne che siano capaci di fare cose nuove, non soltanto di ripetere semplicemente ciò che le altre generazioni hanno fatto.” Nel complesso problema dell’educazione, oggi si colloca dirompente e devastante, capillare e non controllabile, la questione della grande madre, la vera guida nemmeno più occulta rappresentata della Rete la quale, senza porsi come referente, lo diviene di fatto nel momento in cui esautora quasi completamente le figure tradizionali di riferimento.
L’espressione “educare”, dal latino “tirar fuori – allevare”, conserva l’ambiguità implicita nelle proprie radici poiché, a mio modo di vedere, aiutare il soggetto a esplicitare a sé, a prendere coscienza di ciò che è, insomma a “tirar fuori” ciò che già è in lui, non è esattamente come riunire in gruppo inducendo a comportamenti omologanti al fine di ottenere un buon prodotto, in sintesi “allevare”. Se l’obiettivo dell’educazione è aiutare a determinare uomini migliori degli educatori, sarà necessario, io credo, educare alla libertà, alla creatività, al rispetto della diversità. A questo punto chiediamoci: è possibile procedere verso un simile obiettivo imponendo modi e tempi di apprendimento, premiando chi meglio clona il messaggio ricevuto e unificando il pensiero in ossequio di una volontà superiore? L’età non mi soccorre e non ricordo dove ho letto il parallelo pedagogico tra l’azione scultorea di Michelangelo, che libera la forma già “prigioniera” del marmo, e la corretta azione dell’educatore. Non mi sembra che sia il paragone più calzante, il grande artista rinascimentale, infatti, poteva liberare dal blocco informe quanto il suo sguardo, seppure geniale, era stato in grado, più o meno proiettivamente, di individuare, o meglio, ri-conoscere. Non gli era evidentemente possibile, nemmeno poteva desiderarlo, domandare alla pietra quale fossero le sue più intime aspirazioni o propensioni. Una simile azione è più prossima a una attività educativa che vuole affermare la “creatività-volontà” del pedagogo piuttosto che aiutare il giovane a esprimere e determinare se stesso. Certo, il marmo non aveva modo né motivo di crucciarsi, diverso il caso di un bambino che, non dimentichiamolo, non è un “piccolo uomo”, non ha mezzi per comunicare adeguatamente ma, dell’essere umano, è bene gli sia riconosciuta l’intima natura, le proprie congenite peculiarità, il suo specifico modo di sentire, il suo ancora a se stesso inconosciuto particolare individuo che potrebbe divenire.