Propedeutica alla solitudine

Propedeutica alla solitudine

Generico novembre 2025

“Non c’è peggior solitudine di quella condivisa” afferma l’amico Gershom Freeman, amante del paradosso, forse, ma quanto corrosivamente capace di fotografare momenti di vita vera e di metterli sotto l’occhio sbigottito delle coscienze sopite. Approfitto della circostanza, la coincidenza dell’uscita di queste righe con il 5 novembre, per augurargli un felice compleanno, un modo per rammentargli che, anche se non ci sentiamo e non ci vediamo spesso, nel caso in cui si sentisse solo, evento peraltro quasi impossibile per una persona tanto ricca di luce interiore, per rammentargli, dicevo, che l’affetto supera tempo, spazio e convenzioni. Per tornare immediatamente in medias res può essere utile ricordare quanto Martin Heidegger scrive in L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul Teeteto di Platone: “Il filosofo deve restare solitario, perché lo è nella sua essenza. La sua solitudine non può essere discussa. L’isolamento non è qualcosa che si può volere. Proprio per questo egli deve esserci sempre nei momenti decisivi e non può farsi da parte. Egli non fraintenderà la solitudine interpretandola nel senso esteriore di un ritirarsi e di un lasciar correre le cose”. Lasciamo a margine l’aspetto socio culturale di questa affermazione che fonda la logica del dovere all’impegno e alla partecipazione come imprescindibile per il filosofo e, secondo me, per ogni essere pensante che, necessariamente, si pone come curioso osservatore teso alla comprensione che non lascia “correre le cose”, soffermiamoci piuttosto sull’idea di solitudine nella sua valenza positiva. Premesso che esiste una fondamentale differenza tra la solitudine scelta e quella subita, sarebbe interessante proprio riflettere su una ancor più sottile e incompresa distinzione tra consapevolezza nella solitudine e inconsapevolezza affogata dalla moltitudine. Così posto il tema assume connotazioni estremamente attuali. Mi riferisco al frastornante e frastornato turbinio di voci, immagini, suoni e, soprattutto, “banalità che nulla aggiungono se non banalità”, che abitano troppe ore del comune quotidiano. Ore che spesso consumiamo appesi al micro schermo di un cellulare, ore che sembrano liberare l’individuo dal pericolo della solitudine precipitandolo, di fatto, nella condizione tragicamente e disperatamente indicata poco sopra come “inconsapevolezza affogata dalla moltitudine”.

La convinzione che essere perennemente “connessi” ci renda meno soli è semplicemente un inganno e, ancor più malinconicamente, un banale e inconsapevole auto inganno. Il ribaltamento del rapporto tra mezzo e utilizzatore dello stesso, è palesemente dimostrato dall’incapacità, oramai unanime, di non rispondere, immediatamente e in qualsiasi circostanza, allo squillare del proprio cellulare. È lui che decide e, pertanto, agisce mentre, mi sembra ovvio, chi si affretta a rispondere si riconosce come mezzo in “grado di e tenuto a” conservare e corroborare l’infinita connessione della rete. Mi sembra rilevante anche sottolineare che la “connessione virtuale” non è costituita dalle “relazioni fisiche dei social”, ma dall’asservimento di ogni individuo alla nuova Somma Divinità. Il nuovo dio non ha più le sembianze di un anziano creatore con la lunga e saggia barba canuta, nemmeno l’arrogante apparire del potere delle ideologie e dello stato, e neanche quelle più viscide del mercato, ma ha saputo assumere la fisionomia affascinate del novello “angelo caduto”. Eppure tale comportamento, cioè abdicare alla libertà di pensiero per annegarci nella inconsapevolezza della omologazione, non è avvertito come penalizzante grazie a una perversa azione camaleontica oramai diffusa in numerosi contesti e dalle più diverse genti: alterare il senso delle parole che, non possiamo dimenticarlo, nascono con l’intento di rappresentare idee e cose e, pertanto, non ha senso svuotarle delle loro radici semantiche. Sarà sufficiente definire “libera informazione in grado di offrire una più profonda comprensione del vero” ciò che correttamente andrebbe descritto come “scenografia gestita da algoritmi che rispondono a ciò che il fruitore desidera che sia”. Tale dinamica confermativa e rassicurante permea comunicatore virtuale e soggetto connesso di una omogenea solidarietà che, inevitabilmente, esorcizza la solitudine camuffandola.

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